Si dice che i soldati del capitano Jacques de Chabannes, signore de La Palice, per celebrarne la “vitalità” come combattente presero a cantare, dopo la sua morte, un’ingenua strofetta: “Un quart d’heure avant sa mort Il était encore en vie.”
Non so se lo avete notato, ma in questi ultimi tempi continua a riaffiorare, con preoccupante frequenza, il tema del catastrofismo, in forme e modi che mai avremmo immaginato potessero apparire in una societa’ rivolta al futuro…

Editoriale – Febbraio 2013

di Giancarlo Manfredi

Premonizione: “Preavviso sul determinarsi di eventi futuri, sul loro esito e sulle loro conseguenze, che si può trarre, secondo alcune credenze religiose o superstiziose, dalla osservazione di determinati fatti, considerati come segni premonitori.” (Enciclopedia Treccani)

In un recente sondaggio della Edge Foundation, un’organizzazione che vuole riunire persone che lavorino ai limiti estremi dei loro campi è stata posta la domanda: di cosa dobbiamo avere paura?

Della crisi economica? Di un conflitto mondiale? Di una tecnologia che si rivolta contro il suo creatore? Di una pandemia? Di un meteorite assassino?

Per quanto interessante e coinvolgente queste non sono a mio avviso, le domande giuste: il sociologo Claude Lévi Strauss sosteneva infatti che “più che dare risposte sensate, una mente scientifica formula domande sensate”.

Quindi dovremmo cercare di ribaltare ancora una volta la prospettiva e capire invece qual è l’esigenza diffusa, la causa implicita, di tutto questo millenarismo.

Avrei una teoria in merito: secondo me si tratta, né più né meno, di una di quelle situazioni che Sigmund Freud identificava come nevrosi collettiva.

Intendiamoci, di guai la vita su questo pianeta ne vive fin troppi e certamente stiamo facendo di tutto per complicarci la giornata oltre che il futuro e tuttavia il problema di questo malessere sociale diffuso potrebbe risiedere nella negazione delle responsabilità.

Prendiamo ad esempio il cambiamento del clima: dice lo scrittore Bruce Sterling in un’intervista su di un noto quotidiano che “…la gente detesta parlarne: possono anche sussultare per colpevoli paure, o rabbrividire con un senso di rifiuto, ma è un fattore che anticipa una profonda, drastica differenza per il futuro. Molto più di qualunque altra cosa stia accadendo ai giorni nostri…”

Ora, che il potere dell’individuo di influire sui processi globali sia minimo, questo è evidente, ma tanto il senso di impotenza quanto la rimozione di un problema dalla coscienza quotidiana sono due tra le conclamate cause di un problema psicologico profondo. E’ infatti facile (e anche molto immaturo) dare la colpa ad altro che non il Sé, lo sappiamo da sempre (io perlomeno dal liceo quando incontrai la frase di Socrate: “La pena che i buoni devono scontare per l’indifferenza alla cosa pubblica è quella di essere governati da uomini malvagi.”) e tuttavia non lo impariamo mai abbastanza. In seconda battuta, poi, sempre più dobbiamo prendere atto della prevalenza di “odiologie” politiche e religiose sul cosiddetto “buon senso” (o, per usare un termine appropriato, sul senso etico) che dovremmo trovare in noi stessi quanto nel vicinato.

E troppo fanatismo cieco non è un buon auspicio per il prossimo futuro.


Anche in questo caso, però, assistiamo ad un meccanismo sociale riconducibile alla psicologia dell’individuo, la negazione di una realtà (sconveniente e umiliante) e il rifuggire nella mitologia, quest’ultima intesa come menzogna consolatrice: avete presente le “vergini che attendono languide sulle rive di fiumi di latte e miele” i (cosiddetti) martiri di turno che si fanno esplodere in un centro commerciale?

Altro che Illuminismo, qui è un ritorno verso il peggiore di tutti i passati oscurantisti!

Ma non era forse Voltaire a sostenere che “La superstizione mette il mondo intero in fiamme, la filosofia le spegne”?

Ora cosa ci impedisce di riconoscere la realtà: che sia l’ennesimo paradosso in una società che fa della comunicazione la sua principale caratteristica?

Se ci fate caso un’altra delle nostre paure (ammettiamolo) è quella relativa alla violazione della nostra privacy: al di là di obiettive esigenze di sicurezza personale, sempre di più ci riveliamo verso la rete e tuttavia ricorriamo spesso all’anonimato (qualora tra intercettazioni telefoniche e ambientali, droni, telecamere di sorveglianza, accordi tra i gestori della rete e i governi, per non parlare di Echelon et similia… sia ancora sia possibile) quale forma di difesa.

Ebbene, ancora una volta assistiamo ad una forma, conclamata, di negazione della responsabilità: qui non si tratta della legittima paura verso le macchine più o meno senzienti che (almeno al momento) non rispondono alle rassicuranti Leggi sulla robotica di Isaac Asimov, ma della negligenza verso l’onestà intellettuale.Ma se tutte queste considerazioni (all’apparenza un po’ cervellotiche) fossero in realtà sensate, come se ne esce?Il primo passo è riacquisire consapevolezza del sé e delle proprie responsabilità nei confronti dell’altro.Non sono l’unico a sostenere questo concetto, persone ben più prestigiose di me lo hanno proclamato nel tempo e cito solo ad esempio la famosa frase di Indro Montanelli “L’unico consiglio che mi sento di dare – e che regolarmente do – ai giovani è questo: combattete per quello in cui credete. Perderete, come le ho perse io, tutte le battaglie. Ma solo una potrete vincerne. Quella che s’ingaggia ogni mattina, davanti allo specchio”.Ci vorrebbe probabilmente una sorta di terapia di gruppo, uno psicodramma, avete presente?Si tratta di quella metodologia che “prevede l´uso di tecniche attinte dall´universo teatrale e che, nella messa in scena, si basano sull´agire, l´osservare e il riflettere. […] Permette di rappresentare, esplorare ed evidenziare situazioni in cui i partecipanti agiscono […] dando luce a nuove immagini del proprio ruolo e inedite possibilità di comportamento.”

L’esito alla fine di un tale percorso di crescita individuale e collettiva dovrebbe risultare nell’accettazione della propria razionalità, del fatto che, in un mondo (questo si illogico) che sempre più assomiglia ad una farsa teatrale, bisogna agire secondo coscienza e accettare le conseguenze delle scelte (per quanto siano apparentemente poco influenti) che dipendono da noi.

Insomma, l’avrete capito, da soli non se ne esce, ma nemmeno perdendo la nostra anima nello stolido anonimato della folla: dobbiamo prendere coscienza dell´essere parte di una categoria sociale, con tutto quello che ciò comporta a livello di dovere civico perché molto probabilmente Jack London aveva qualche ragione ad asserire che “Durerà la razza che possiede il più elevato altruismo.”