aprile2015-2“Conoscere le nostre paure è il miglior metodo per occuparsi delle paure degli altri.” (C.G. Jung)– Vi capita mai di risvegliarvi in piena notte con un senso di ansia acuto, senza essere in grado di identificare il pericolo oggettivo che causa di tale inquietudine? Non basterà però un nuovo provvedimento anti-terrorismo o nuove misure per la sicurezza del volo aereo a razionalizzare le nostre paure…

 

 aprile2015-3L’umanità – diceva Sigmund Freud  – ha sempre barattato un po’ di felicità per un po’ di sicurezza“, ma oggi, a differenza di un tempo passato nel quale era drammaticamente semplice elencare i pericoli quotidiani, le nostre paure sono diventate più “elusive”, certamente non virtuali ma difficili da localizzare quasi fossero erratiche.

E noi, che ci professiamo esseri raziocinanti, ci ritroviamo invece a dibatterci nella vana ricerca di una causa prima: vorremmo essere capaci di “fare qualcosa in proposito” o, meglio,  chiedere che “qualcosa venga fatto”.

Purtroppo, qualsiasi azione politica non avrà mai il potere di esorcizzare le ansie di una realtà così complessa come quella che ci si prospetta dove un mutamento continuo (la consapevolezza della fragilità nella propria posizione sociale) diventa insicurezza esistenziale, con l’aggravante che le fonti reali di tale malessere non sono lontanamente controllabili.

Sempre poi che simili cause siano effettivamente identificabili: la recrudescenza del razzismo più bieco è piuttosto il sintomo evidente, la ricerca di un bersaglio alternativo, visibile e a portata di mano, salvo poi dover ammettere a posteriori che tali “malsane crociate” non cancelleranno mai veramente nessuna delle nostre paure.

Giovanni Baglio, medico epidemiologo dell’Istituto nazionale salute migrazione e Povertà ci parla di sindrome di Salgari: “Proprio come Emilio Salgari descriveva posti che non aveva mai visto solo grazie alla sua fervida immaginazione, così adesso il mito del migrante untore si basa più sull’attitudine a lasciarsi trasportare dalle suggestioni che a riflettere sui dati di fatto. È un mito privo di fondamento”.

Altrove sono le radici del “male oscuro” che, stranamente, potrebbe avere un collegamento con il senso perduto delle parole: ma è mai possibile ricondurre una crisi così acuta ad una banale disfunzione linguistica?

aprile2015-5Un problema di strategie della comunicazione?

Oggi le parole non sono più sufficienti a colmare il vuoto relazionale dell’individuo: sempre di più, anche quando si tenta di accorciare le distanze interpersonali si innescano cortocircuiti nella comprensione culturale.

Non ne farei un banale problema di “format” (nel senso di struttura logica) ma di incapacità di narrazione, quest’ultima intesa come la struttura comunicativa che ci consente di interpretare un evento e di dare un senso a possibili risposte.

E’ proprio così: la (buona) comunicazione può veramente diventare il vettore (l’astronave Enterprise) che trasporta il codice culturale (le parole chiave universali) per il riconoscimento, la condivisione e la gestione delle situazioni di pericolo effettivo che poi sono la causa prima della condizione di ansia latente del nostro tempo.

Ma ecco la cattiva notizia; per adottare questo modello comportamentale resiliente ed adattativo dobbiamo combattere il sempre più diffuso “analfabetismo funzionale”, ovvero l’incapacità (il rifiuto per mera pigrizia?) di riconoscere che il mondo è complesso e che l’essenza delle cose (un conflitto, un’emergenza ambientale, un disastro aereo) va ben oltre le interpretazioni elementari (per intenderci, quelle da bar dello sport o da reality televisivo o da tribuna politica) che derivano dal più deleterio degli approcci superficiali.

Lo scrittore Francesco Piccolo, nell’introduzione del suo libro “Scrivere è un tic” ci racconta come “Nel mondo ci sono due civiltà divise da un confine netto. […] Da una parte si trovano quelli che leggono e/o scrivono. Dall’altra quelli che non leggono e non scrivono, né hanno intenzione di farlo.

Come a dire due civiltà diverse e distinte che si trovano a dover risolvere un “primo contatto” incapaci però di comunicare in maniera risolutiva: forse allora la missione degli eroi di turno (presuntuosa, per carità, quanto ambiziosa) dovrebbe essere quella di superare questa divisione, utilizzando la forza della narrazione in forme e modi diversi (più consoni alla società contemporanea) per rimuovere la distanza tra le persone tanto quanto tra l’individuo e l’origine (vera) delle sue paure.

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