uss-ares“Infinite diversità in infinte combinazioni” (Filosofia IDIC) – Ma se la diversità viene assunta quale valore – biologico o culturale che sia – anche il confronto diventa  necessario e, di conseguenza, il conflitto è una concreta possibilità; il problema è quindi comprendere le ragioni dell’antitesi tra guerra e pace per gestirle in un processo generativo. Il primo passo è la comunicazione…

Forse è banale, ma certo non è scontato: comunicare a due vie, ovvero parlare ed ascoltare reciprocamente, è un’azione essenziale per il nostro futuro.

“La tenebra non puo’ scacciare la tenebra; solo la luce può farlo. L’odio non può scacciare l’odio; solo l’amore può farlo.”, sosteneva Martin Luther King e dalle sue parole comprendiamo subito come il lato oscuro (o meglio oscurantista) persegua un obiettivo simmetricamente opposto a quello che prevede nuove idee, prospettive di sviluppo oltre che emozioni condivise: chiudere le frontiere, diffidare delle culture diverse, comunicare insicurezza, contagiare con la paura.

“Calunniate, calunniate… qualcosa resterà…”, in questo senso fa da contraltare la famosa frase sulla disinformazione, attribuita a Lenin e che oggi è sempre più spesso applicata nel meccanismo della cosiddetta “macchina del fango”.

Questa dualità è oggi particolarmente critica, laddove le innovazioni tecnologiche dell’informazione e della comunicazione  grandemente  contribuiscono alla diffusione di messaggi, elementi in grado di generare il vero valore aggiunto della società globale.

Il  giornalista e premio Pulitzer americano Nicholas Kristof, in un bellissimo articolo, aggiunge un altro elemento essenziale a questo quadro: “Gli estremisti per le loro battaglie sul breve periodo utilizzano le armi, ma per mantenere il terreno conquistato sul lungo periodo combattono anche l’istruzione e il conferimento di poteri alle donne. Sanno che analfabetismo, ignoranza e oppressione femminile creano la “capsula di Petri” nella quale può svilupparsi l’estremismo…”

Ecco dunque uno spiraglio strategico da sfruttare: in effetti oggi i libri costano meno delle bombe.

Approfittiamo quindi dei consigli di uno stratega (vero), sir Basil Liddell Hart, che scriveva (nel suo volume Paride o il futuro della guerra”): “Compito della Grande Strategia individuare, e sfruttare, il tallone d’Achille di una nazione nemica, colpendo non la sua fortificazione più massiccia, bensì il suo punto più vulnerabile. Fu in questo modo che, nel primo conflitto di cui la storia ci tramanda memoria, Paride, figlio di Priamo re di Troia, uccise il campione dei Greci. Dopo aver distrutto milioni di vite in vani assalti contro la forza del nemico, non farà male riflettere sulla lezione di Paride che tremila anni or sono prese di mira il tallone di Achille.”

Se quindi colpire i simboli e destabilizzare i processi di integrazione comunica insicurezza, l’istruzione offre un deciso vantaggio strategico se si persegue l’obiettivo di una società meno vulnerabile alla manipolazione degli integralisti, di qualsiasi posizione, ideologia o fede religiosa, essi siano.

Ma basterà la cultura?

Perché qui entra in gioco la natura umana e un’eredità genetica che risale alla preistoria e anche prima: nella nostra testa infatti convive, insieme alle funzioni più evolute, una piccola area cerebrale, l’amigdala, che fa parte della porzione più primitiva e che è associata alle emozioni, primarie, come ad esempio la paura e alla reazione “fight or flight” (attacca o scappa).

Dice in merito Rita Levi Montalcini: “il cervello arcaico  […]non si è praticamente evoluto da tre milioni di anni fa a oggi, e non differisce molto tra l’ homo sapiens e i mammiferi inferiori. Un cervello piccolo, ma che possiede una forza straordinaria. Controlla tutte quelle che sono le emozioni. Ha salvato l’australopiteco quando è sceso dagli alberi,  permettendogli di fare fronte alla ferocia dell’ambiente e degli aggressori. L’altro cervello è quello cognitivo, è molto più giovane. È nato con il linguaggio e in 150.000 anni ha vissuto uno sviluppo straordinario, specialmente grazie alla cultura. Si trova nella neo-corteccia. Purtroppo, buona parte del nostro comportamento è ancora guidata dal cervello arcaico”.

Purtroppo questa nostra peculiarità atavica e legata alla sopravvivenza in tempi remoti, non aiuta alla pacifica convivenza (come pure all’adattamento ai cambiamenti).

Per nostra fortuna, però, l’evoluzione ci ha dotato di un meccanismo grazie al quale le azioni eseguite dagli altri e captate dai sistemi sensoriali, sono automaticamente trasferite al sistema motorio dell’osservatore, permettendogli così di rivivere una sorta di copia del comportamento osservato: in parole semplici noi capiamo gli altri perché ci mettiamo nei loro panni.

I neuroni che compiono questa trasformazione di una azione osservata, da un formato sensoriale a uno motorio, sono stati chiamati neuroni specchio e ci consentono di elaborare istintivamente il punto di vista del nostro antagonista.

Subentrano poi, naturalmente tutte le sfumature di una complessa psicologia sociale e, per comprendere anche questo aspetto della vicenda, ricorriamo alle idee espresse dal dottor Morelli  (nel volume “Il conflitto generativo. La responsabilità del dialogo contro la globalizzazione dell’indifferenza”): “Presumere che la strategia migliore per negoziare e gestire efficacemente i conflitti sia puramente razionale è prevalentemente insufficiente, se non errato. Quello che accade nella realtà è che i sentimenti di ostilità che possono intervenire alla base di una situazione conflittuale sono fondati in buona misura su una dimensione emozionale che si situa a livello di esigenze primarie. (…)Dare valore a tutte le posizioni in gioco, anche quelle che suscitano particolari resistenze a noi per la differenza che ci propongono, è una condizione fondamentale nella gestione del conflitto.”

A farla semplice: chi è prevenuto verso un problema relazionale, in realtà, sta dando ascolto alle emozioni che sottostanno a tale situazione, non affrontando invece  la ricerca di una soluzione.

Ogni conflitto va invece rielaborato senza cadere nella trappola dal lato oscuro della violenza e della sopraffazione.

Ma questa (purtroppo o per fortuna, fate voi) non è un’opzione, è piuttosto una via obbligata se vogliamo ancora evitare un domani di conflittualità (anche questa globalizzata).

Gli scenari (da incubo) possibili in caso di fallimento li conosciamo già, dipinti in mille storie di fantascienza: ecco, ad esempio, una distopia come descritta nel romanzo “Il viaggiatore” di John Twelve Hawks:  “Michael Corrigan era convinto che il mondo fosse un campo di battaglia in perenne stato di guerra. La guerra comprendeva le campagne militari organizzate dall’America e dai suoi alleati, ma c’erano anche conflitti minori tra nazioni del Terzo mondo e genocidi ai danni di varie tribù, razze e religioni. C’erano assassinii e attentati terroristici, cecchini pazzi che sparavano a caso sulla gente per motivi futili, gang mafiose e bande criminali per le strade delle grandi città, sette pseudoreligiose e scienziati che spedivano buste all’antrace. Una marea di migranti dai Paesi del Sud attraversava i confini, verso nord, portando con sé nuovi terribili virus e micidiali batteri carnivori. La natura era talmente infuriata per la sovrappopolazione e l’inquinamento che stava reagendo con siccità, carestie e uragani. Le calotte polari si stavano sciogliendo e il livello dei mari e degli oceani aumentava, mentre lo strato d’ozono veniva lacerato dagli aerei. A volte Michael perdeva di vista le diverse minacce, ma restava comunque la consapevolezza del pericolo in generale. La guerra non sarebbe mai finita. Si diffondeva ogni giorno di più, facendosi più invadente, reclamando nuove vittime.”

Vi ricorda nulla? Ed è questo ciò che volete per il Futuro?

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